L’Italia ed i corridoi umanitari: regolarizzare le frontiere, non chiuderle
Sull’immigrazione servirebbe una discussione razionale, basata sugli studi, sui numeri e sui diritti delle persone: l’approccio al fenomeno deve essere strutturale e non basato sull’emergenza, multidisciplinare e non solo con lo sguardo rivolto alla sicurezza. Tali risposte, spesso contingenti, hanno bisogno, inoltre, di uno sguardo lungimirante e di misure a medio e lungo termine. Per questo sono sempre stato convinto che la chiusura delle frontiere non potesse essere la risposta giusta al fenomeno della migrazione. Così come sono convinto che la stessa debba essere regolata per ovvi motivi di sicurezza nazionale e di tenuta sociale del Paese. La corretta gestione dei flussi migratori passa, a mio avviso, anche dall’attivazione di corridoi umanitari che consentano, a chi ne ha diritto, di trovare accoglienza in Italia senza rischiare la vita e senza violare la legge. Per questo l’iniziativa del 14 Novembre che ha portato in Italia, per via aerea, 51 rifugiati, provenienti dai campi di detenzione libici è stata un’ottima notizia, così come rappresenta un segnale molto positivo l’impegno del Ministro dell’Interno a far eseguire altri voli con la stessa finalità affermando, inoltre, che “l’unico arrivo possibile per donne, bambini e rifugiati è su un aereo, non su barconi gestiti da trafficanti di uomini”. Un modello di percorso sicuro anche perché occorrerebbe sottrarre, e non certo aggiungere, sofferenze a chi già fugge da guerre o situazioni di estremo pericolo e, nel contempo, soffocare l’indegno e violento business della tratta di esseri umani. Nei mesi scorsi, la strada dei corridoi umanitari dalla Libia autorizzati dal Viminale era stata inaugurata dall'ex ministro dell'Interno, Marco Minniti, ma dopo due voli era stata interrotta. Ora anche l'UNHCR, che non è mai riuscito a inaugurare il centro di transito a Tripoli, allestito proprio per ospitare le persone liberate dalle carceri libiche in attesa di un trasferimento in Europa, si augura che eventi simili possano riproporsi nel tempo.
È questa la strada dell'immigrazione legale, dei corridoi umanitari che tutti auspicano, ma che vengono autorizzati solo in piccole dosi. Per l’Italia è la prima volta di un corridoio dal Niger, per Salvini è il battesimo del volto buono del ministro che ha fatto della lotta all'immigrazione clandestina la sua bandiera, in un Paese dove quella legale risulta fin troppo difficile. Dal 2016 sono state oltre 1.500 le persone giunte nel nostro Paese attraverso i cosiddetti “corridoi umanitari” organizzati e autofinanziati dalla Comunità di Sant’Egidio, dalle Federazioni delle Chiese evangeliche in Italia, dalla Tavola valdese e dalla Conferenza episcopale italiana, in accordo con i Ministeri degli Esteri e dell’Interno. Quando arrivano in Italia, i profughi vengono accolti dai promotori, che li ospitano in strutture disseminate sul territorio nazionale secondo il modello della cosiddetta “accoglienza diffusa” e offrono loro la possibilità di un’integrazione nel tessuto sociale e culturale, attraverso l’apprendimento della lingua italiana, la scolarizzazione dei minorenni e altre iniziative. Per progetti analoghi anche Francia, Belgio e Andorra si sono affidati al modello italiano di accoglienza, che prevede la partecipazione sia di società sia di istituzioni sia, infine, di comunità religiose di diverse fedi.
Sarebbe necessario e vantaggioso, anche per la nostra economia, che persone che vogliono lavorare in Italia vi possano accedere con un regolare visto, senza affrontare il deserto e le onde in balia dei trafficanti di esseri umani. Non solo rifugiati, quindi, ma anche apertura per chi, legittimamente, cerca da noi un’occasione di riscatto dalla miseria, fuggendo da terre divenute inospitali pensando di poter offrire al nostro Paese il proprio lavoro. Migranti cosiddetti "economici" che dovrebbero poter entrare in maniera regolare e regolata in Italia riaprendo canali d’ingresso controllati che sono ostruiti ormai da otto anni. La ben nota situazione di crisi demografica italiana richiede, infatti, inserimenti di forza lavoro dall’estero, non è quindi l’immigrazione il vero problema, ma la clandestinità in cui si sviluppa, in assenza di vie legali praticabili. Per ridurre disumanità e irregolarità occorre garantire, quindi, vie legali d’accesso sicure.
Occorrerebbe anche ripristinare la presenza delle Navi della Marina nel controllo degli accessi alle nostre coste che attualmente vengono raggiunte direttamente da migranti che poi, non di rado, si disperdono direttamente nel territorio nazionale senza controlli sanitari e di sicurezza. Sia in Mare Nostrum che in Mare sicuro avevamo a bordo la Croce Rossa, le volontarie Crocerossine e il Ministero della Salute per esercitare un doveroso filtro sanitario che oggi, vista la recrudescenza del virus Ebola in Africa, sarebbe quanto mai opportuno ripristinare. La presenza delle nostre navi nel canale di Sicilia e nel Mediterraneo centrale, contrasterebbe l’uso illegittimo del mare, riducendo, fra l’altro, il rischio di ripetersi degli attacchi a fuoco contro i nostri pescherecci da parte della Guardia Costiera libica, avvenuti nell’ultimo biennio.
È tempo, inoltre, di un’azione davvero coordinata a livello europeo tra Stati che, aderendo a un progetto comune, siano capaci di condividere responsabilità che non devono essere lasciate sulle spalle di un Paese solo. Intanto giovedì passato, causa, sembra, l’orario di pranzo che ha fatto affrettare alcuni deputati ad uscire dall’aula, è saltato il numero legale all’euro-parlamento per approvare la proposta per introdurre un nuovo sistema di visti umanitari per garantire ingressi legali nell’UE a chi scappa da guerre e carestie. Uno scivolone, forse involontario, che però la dice lunga su quanto poco l'Europa sia interessata a farsi carico di un problema enorme come quello dei flussi migratori. Tutto questo in una giornata in cui, come già detto, l’Italia annunciava di aver accolto profughi bisognosi attraverso un nuovo corridoio umanitario. L’ipocrisia di un’Europa che, almeno per ora, si ferma più alle parole che ai fatti.