Piano Marshall per l’Europa?
Il 5 giugno del 1947, George Marshall, segretario di Stato americano, nell’università di Harvard, si fa latore di un grande annuncio: l’avvio di un programma di aiuti internazionali, la costituzione di una commissione ad hoc, ossia l’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece all’epoca, oggi diventata l’Ocse) e una sorta di lista delle necessità pronta per essere assolta. Come risultato prevedibile si era giunti ad avere, da un lato, un alleato affidabile e, dall’altro, un mercato di milioni di persone.
Il piano in questione è passato alla storia come il Piano Marshall (il nome ufficiale era ERP, European Recovery Program). Se ne sente molto parlare ultimamente in quanto nelle situazioni di crisi più nera viene citato a modello risolutivo, visti i frutti che nel passato è stato in grado di portare.
Non a caso la stessa Presidente Ursula von der Leyen nella sala stampa della Commissione Europea insieme al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel hanno menzionato il Piano Marshall in merito alla situazione attuale: “L’Europa ha bisogno di un nuovo Piano Marshall. Avremo bisogno di ingenti investimenti pubblici e privati per ricostruire l’economia e creare nuovi posti di lavoro. La chiave è un nuovo, potente bilancio pluriennale dell’Unione”.
In concreto, cosa si era fatto con il Piano Marshall? E perché è passato alla storia? L’Economic Cooperation Act, promulgato nel 1948, si imperniava su tre punti cardine tra loro connessi e destinati ad avere conseguenze rilevanti a livello strategico.
Innanzitutto, si inquadrava nel progetto più vasto di riorganizzare l’Occidente in base a una predominanza “atlantica”. In secondo luogo, si voleva dare vita a una “governance” mondiale su base multilaterale, attivando organizzazioni internazionali quali l’ONU (Organizzazione Nazioni Unite), l’FMI (Fondo Monetario Internazionale), il Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), alla Banca Mondiale. In ultimo, si puntava a creare una sorta di omogeneità in campo economico e valoriale condiviso che potesse opporsi al blocco sovietico per arginare il contagio dell’ideologia comunista e il possibile avvicinamento a Mosca da parte soprattutto dei Paesi economicamente e socialmente devastati dalla Seconda Guerra Mondiale a cui si sarebbero aggiunti quelli in corso di affrancamento dagli imperi coloniali Britannici, Francesi e Olandesi.
Dal punto di vista materiale il Piano ebbe un enorme valore, visto che l’importo dei fondi stanziati corrispondeva a più dell’1% del Pil americano dell’epoca, trasferito agli Stati Europei mediante prestiti a tasso agevolato (di fatto a fondo perduto), oltre a beni di prima necessità e materie prime.
Lo scopo era di rivitalizzare l’economia europea, “agganciando” contestualmente emotivamente gli sconfitti all’America benefattrice. Si legge su un interessante articolo [1] uscito su La Lettura del 19 aprile, che proprio questa dimensione del Piano è spesso sottovalutata, mentre invece è quella che ha fatto sì che nascesse e perdurasse il suo mito.
Il piano Marshal fu accompagnato dalla più grande operazione internazionale di propaganda mai visto in tempo di pace, né prima, né dopo. Cinema, mostre, manifesti, programmi radiofonici raggiungevano ogni fabbrica, ufficio, scuola e casa, con un messaggio adatto a ogni livello della società. Data la posta in gioco nella versione locale della guerra fredda, fu l’Italia il Paese dove questa campagna informativa raggiunse le dimensioni più massicce. […] Fu proprio mostrando i suoi risultati, spiegando i suoi obiettivi in linguaggio semplice, formando una nuova coscienza delle possibilità economiche della produzione di massa per il consumo di massa – anche per un Paese povero, in macerie, largamente agricolo come l’Italia – che nacque con il mito del Piano Marshall, l’attrazione culturale per “l’American Way”.
La Storia ha dimostrato come il Piano Marshall sia stato un formidabile strumento di politica estera a livello strategico, determinante per il rilancio dell’Europa (almeno quella non occupata dall’Unione Sovietica) sul piano sociale, economico e progressivamente anche militare, grazie all’inclusione nell’Alleanza Atlantica degli ex nemici sconfitti (Italia e Germania dell’Ovest).
Nel 1945, l’America usciva immune dalle distruzioni della guerra, con un apparato industriale in fortissima espansione, leader assoluta sul piano tecnologico e militare, pronta a esercitare il ruolo di guida del mondo occidentale. Aveva i mezzi e la visione politica per farsi carico del destino sia degli alleati sia degli ex nemici. In cambio otteneva il ridimensionamento a potenze regionali della Gran Bretagna e della Francia (vds. Crisi di Suez); la fedeltà/obbedienza della Germania e dell’Italia; il contenimento dell’Unione Sovietica e in generale il dominio politico, culturale, economico e militare del mondo cosiddetto “libero” dalla Seconda Guerra Mondiale sino alla fine del XX secolo.
Oggi però gli Stati Uniti non sembrano in grado né appaiono disponibili a mantenere il ruolo di “guida del mondo libero”, con i relativi oneri.
Con la fine della Pax Americana, con il ripiegamento neo-isolazionista dell’amministrazione Trump e il ritorno a un ordine (o meglio disordine) mondiale multipolare, chi guiderà la rinascita europea dalle ceneri del Covid 19?
Non può che essere l’Europa a salvare se stessa. Oggi più che mai il sogno Europeo potrebbe risorgere con nuovo vigore, se trovassimo quell’unione d’intenti e quella visione strategica necessaria per superare egoismi e particolarismi nazionali, al fine di mettere in campo le immani risorse necessarie al salvataggio non solo economico, ma anche sociale del nostro continente.
[1] D. W. Ellwood, G. Bischof, Il piano che sconfisse i sovranisti, su «La Lettura», 19 aprile 2020.