L’Unione Europea è in crisi?
Una delle crepe che la corrente situazione pandemica sta portando alla luce con sempre maggiore evidenza è la tenuta dell’Unione Europea. Sappiamo, facendo i conti con la lunga storia che ha visto protagonista il Vecchio Continente, che è stato molto difficile raggiungere l’unità e che, soprattutto, anche all’interno di essa rimangono forti e radicate le matrici culturali delle singole nazioni, così diverse tra loro, così ricche, ciascuna, di tradizioni, visioni, temperamenti difficili da smussare e far convergere in un’ottica collettiva.
Come si legge bene sulle pagine di Limes, dalla penna di Federico Petroni: “L’epidemia ha confermato che l’Europa non esiste, ne esistono tante, irriducibilmente plurali. Non un soggetto che parli a suo nome, né un’identità europea; allo scoppio della crisi di identico non c’è stato nulla, nemmeno la reazione di fronte alla morte. Ciascun governo si è mosso per sé proteggendosi dall’altro. Le nazioni si sono chiuse in loro stesse, in barba a ogni sentire o impegno comune. Non poteva andare diversamente: la malattia ci fa sentire sporchi e untori agli occhi degli altri, sfilaccia tutti i vincoli, allontanando il figlio dai genitori, l’amico dal gruppo, il lavoratore dall’azienda. A maggior ragione in un continente tanto piccolo eppure tanto denso di genti non disposte a riconoscersi uguali. Così il virus ha crudelmente manifestato l’impotenza dell’Unione Europea, la luce riflessa di cui vive finché gli Stati gliela concedono. L’ha scossa alle fondamenta. Confini che si pensavano archiviati sono tornati allo stato solido. Sospesa per chissà quanto è la libera circolazione delle persone. In serio pericolo è quella delle merci e con essa il mercato comune. Il collasso delle economie infrange una delle due promesse insite nel progetto d’integrazione: la prosperità” [1].
Anche il recente provvedimento di instituire un Recovery Fund (un fondo garantito dal bilancio dell’Unione Europea e finalizzato all’emissione di titoli di debito – recovery bond – con cui raccogliere la liquidità da girare agli Stati membri colpiti dall’emergenza sanitaria) altro non è che un modo per dimostrare che l’Europa c’è, è presente, si dà da fare, ma quanto questo poi corrisponde alla realtà dei fatti? Attenzione, con questo non sto affatto dicendo che l’Unione Europea sia un’istituzione obsoleta e che non goda di buona salute, anzi. La mia è una sincera preoccupazione per un’istituzione, al contrario, forse ancora troppo giovane e che nei momenti di difficoltà può più facilmente tendere a disunirsi e a rendersi vulnerabile alle ingerenze sbagliate, vedesi Russia e Cina che non aspettano altro che segnare un punto a loro favore nella guerra d’influenza contro gli Stati Uniti. Quegli stessi Stati Uniti che hanno “conquistato” l’Europa vincendo le tre guerre del Novecento, le due mondiali e quella Fredda.
L’America ha garantito la difesa e la prosperità dell’Europa, essendo egemone non soltanto militarmente, ma anche e soprattutto economicamente e culturalmente: economicamente perché con il piano Marshall e l’apertura dei propri mercati agli europei (globalizzazione), ha incentivato e compartecipato alla nascita dell’Ue; e culturalmente perché ha avuto la capacità di spingere i paesi europei all’emulazione del way of life americano, quel sogno germogliato da una narrazione fondata sulla libertà, sulla democrazia e sull’amicizia tra popoli. Che succede invece adesso? Che gli Stati Uniti restano la potenza militare residente d’Europa, con 65 mila soldati fissi; ma trascurano l’egemonia culturale. “Hanno ignorato, se non addirittura colpevolizzato, gli europei. Quando invece avrebbero dovuto adottare una narrazione umanitaria, entrare in modalità disaster relief, inviare aiuti in pompa magna, descriverli come simbolo della forza della comunità transatlantica. Non è solo l’inadeguatezza di Donald Trump. Il presidente ha antagonizzato gli europei chiudendo i voli e accusandoli di non aver fermato il virus. […] Ma accanto a lui, la diplomazia non ha fatto nulla per enfatizzare l’invio di aiuti, che pure c’è stato, come l’ospedale da campo a Cremona, ma insufficiente e passato sotto silenzio. […] Di certo, la sua inazione ha spalancato le porte alla Cina, prima per distacco nella diplomazia degli aiuti, elargiti fra gli altri e non certo per caso a tutti i paesi finanziariamente più deboli d’Europa, dalla Grecia al Portogallo” [2].
Ecco perché, in assenza di una convincente risposta americana, è necessario essere più decisi e compatti a livello europeo. Invece, soprattutto dal punto di vista economico e finanziario, si vedono ancora una volta troppe divisioni e indecisioni. Al blocco dei così detti paesi del sud (Italia, Francia, Spagna in testa) che chiedono che i fondi stanziati siano almeno in parte a fondo perduto, vediamo opporsi recisamente il blocco del nord (con in testa i paesi scandinavi ancor più della Germania) che non hanno alcuna intenzione di farsi carico di un simile provvedimento. Se, quindi, si è giunti al comune accordo sulla necessità e sull’urgenza di uno strumento finanziario quale il Recovery Fund, si continua a non essere d’accordo sulle modalità di ritorno degli aiuti economici. In questo caso “la governance del Consiglio Europeo, che a differenza della Bce richiede il voto all’unanimità, sta dimostrando di non adattarsi a decisioni di emergenza. Ma data la gravità e unicità di questa crisi, gli investitori si aspettavano decisioni tempestive. «Il ritardo della Ue sta testando la pazienza e la resistenza dei cittadini europei, dei Parlamenti nazionali e dei mercati che finora sono stati addomesticati dalla Bce», commentano da Mediobanca Securities evidenziando che «senza qualche forma di condivisione dei rischi c’è il serio timore di un’escalation della crisi nella zona euro»” [3].
L’Italia, per parte sua, deve essere più forte, deve prendere consapevolezza che il nostro non è un ruolo marginale negli equilibri europei, anzi. Il vasto mercato italiano, il livello di sofisticazione tecnologica e il rapporto di simbiosi della nostra manifattura settentrionale con l’industria tedesca ci rendono essenziali per l’Europa e la Germania, stretta tra il doverci aiutare per mantenere l’equilibrio nell’Unione e il non volerlo fare per non scatenare in patria un contraccolpo nazionalista figlio dell’indignazione, è tra l’incudine e il martello. Proprio per questo dobbiamo utilizzare con saggezza il nostro potere di ricatto per ottenere la condivisione all’interno dell’Unione Europea dei costi della ricostruzione post-virus, con la consapevolezza che proprio perché la Germania, per motivi interni, è frenata, soltanto mostrando la nostra importanza nello scacchiere europeo, si potrebbe giungere a una soluzione di mediazione, magari sfruttando la Francia come mediatore. È il momento, insomma, per dimostrare che il nostro paese è troppo importante per restare, come molto spesso accade, inascoltato.
Tirando un po’ le fila di questo discorso, dobbiamo ricordare, quindi che è solo trovando un’intesa europea che alla fine potremo uscire vittoriosi da questa crisi senza precedenti. Probabilmente non parleremo di “coronabond” e, magari, l’indebitamento dovrà passare attraverso il bilancio comunitario, ma “resta il fatto che serve un risultato importante, per fare in modo che i cittadini abbiano la percezione di un’Europa davvero solidale. Non ci siamo ancora arrivati, ma è troppo presto per perdere la fiducia nell’Europa” [4].
Ammiraglio (a) Giuseppe De Giorgi
[1] https://www.limesonline.com/cartaceo/gli-europei-non-sono-europei
[2] Ibidem.
[4] https://www.internazionale.it/opinione/pierre-haski/2020/04/24/europa-accordo-aiuti-coronavirus