Caucaso: si aggrava la situazione
Una situazione particolarmente delicata è quella che si sta aggravando, nelle ultime settimane sempre di più, in Caucaso tra Armenia e Azerbaigian. Per capire gli scontri che si sono iniziati a intensificare a partire dal 27 settembre scorso a causa di un massiccio attacco di artiglieria da parte degli azeri nella zona del Nagorno-Karabakh, è bene però fare preliminarmente un piccolo quadro riassuntivo di quanto accaduto in precedenza in quei territori.
Sebbene le acredini tra armeni e azeri partano da molto lontano (già dal primo dopoguerra), è di circa trent’anni fa l’avvenimento che di fatto ha dato vita alla tesissima situazione venutasi ad esacerbare a fine settembre, ossia quando, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 la zona del Nagorno-Karabakh (territorio geograficamente azero ma a più vasta maggioranza etnica armena) si è staccata dall’Azerbaigian autoproclamandosi come una repubblica indipendente il 6 gennaio del 1992. Alla fine di quello stesso mese iniziarono i bombardamenti azeri nella regione.
La guerra si concluse nel 1994 e vide il consolidamento della regione del Nagorno-Karabakh come repubblica autonoma, ma non riconosciuta dalla comunità internazionale.
L’Azerbaigian, con questa perdita, oltre ad aver perso una porzione di territorio, l’ha visto diviso da questa lingua di terra separata e ha cominciato la sua rivendicazione dell’unità territoriale; gli armeni, però, per parte loro, hanno sempre affermato il diritto di autodeterminazione dei popoli secondo il quale la neo repubblica si troverebbe in una posizione legittima. La questione necessiterebbe un maggior grado di approfondimento, ma perdonatemi sin d’ora la sbrigatività di questa ricostruzione che, in questa sede, è funzionale alla comprensione dei fatti odierni. Più volte, infatti, nel corso di questi 30 anni ci sono stati attriti e scontri, non è la prima volta che la situazione si fa incendiaria, ma allora qual è la differenza sostanziale della circostanza venutasi a creare nelle ultime settimane?
La prima grossa differenza è la posizione che ha preso in maniera nettissima la Turchia di Erdogan. Ankara infatti si è resa disponibile a spalleggiare gli azeri, come si può evincere dalla chiara dichiarazione del direttore della comunicazione della presidenza turca Fahrettin Altun, che ha detto: «La Turchia si impegnerà totalmente ad aiutare l’Azerbaigian a recuperare le sue terre occupate e a difendere i suoi diritti e interessi in base al diritto internazionale»[1]. E così ha fatto effettivamente, inviando materiale bellico, droni, armamenti, mercenari siriani e così via, motivo per il quale gli azeri si sono sentiti sicuri di poter attaccare, avendo “le spalle coperte”.
La Russia, d’altro canto, sebbene l’agente di prossimità sia l’Armenia, ha mostrato, al contrario della Turchia, un atteggiamento molto più attendista e morigerato. Se infatti negli altri teatri di guerra nei quali di trova di fronte alla Turchia, come la Libia o la Siria, i russi sono stati molto più spregiudicati, in questi territori di confine con i quali sono legati a doppio filo da molteplici interessi e influenze non possono permettersi di compiere passi affrettati, anche perché proprio con l’Azerbaigian (ricchissimo dal punto di vista energetico) sono stati intessuti nel corso degli anni profondi rapporti di tipo commerciale, energetico e militare.
Inoltre, la Russia fa parte anche del così detto Gruppo di Minsk, formato dall’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) negli anni ’90 per mediare la situazione caucasica e cercare di incoraggiare una soluzione pacifica dopo la guerra del Nagorno-Karabakh. Questo Gruppo è guidato da una co-Presidenza che oltre alla Russia vede anche gli Stati Uniti e la Francia (ne fanno parte inoltre rappresentanti di Bielorussia, Germania, Italia, Portogallo, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia e Turchia oltre a Armenia ed Azerbaigian). Come rappresentanti della NATO, però, si sono limitati soltanto a richiamare la necessità di un cessate il fuoco, senza agire in nessun’altra maniera.
Soltanto il Canada, esportatore di equipaggiamenti militari in Turchia, dopo averli accusati di aver impiegato le armi per il conflitto armeno-azero, ha interrotto le esportazioni: in particolare dei sensori montati sui droni Bayraktar Tb2 utilizzati per acquisire i bersagli e che sono ad oggi uno dei prodotti di punta dell’industria bellica turca. Il Canada non è nuovo a questo tipo di sospensioni (l’ha già fatto nel 2019 durante la guerra in Siria), ma in questo caso la decisione è stata anche presa in conseguenza dell’influenza che la lobby armena canadese ha esercitato [2]. Di questo ne beneficiano gli Stati Uniti che possono così non esporsi in prima persona nella delicata situazione caucasica mantenendo una posizione, per così dire, defilata.
Ecco che quindi, come ultimamente accade spesso, chi la fa da padrone in questo scenario geopolitico è solo la Turchia che si è aperta (dopo il Mediterraneo, la Siria e la Libia) anche a questo nuovo fronte di battaglia mostrando di essere capace di tenere aperti contemporaneamente impegni bellici differenti, il tutto in una situazione che sta velocemente precipitando, con inediti picchi di violenza (bombardamenti, lanci di razzi, raid con droni e tutto ciò non ha colpito solo bersagli militari ma anche civili).
La questione, sia geopolitica sia giuridica, necessita assolutamente di essere gestita tempestivamente a livello internazionale. Sebbene si sia arrivati a questo punto in seguito ad anni e anni di insuccessi diplomatici e quindi sia difficile essere ottimisti su una facile risoluzione, c’è bisogno che si prenda atto che solo modificando totalmente la linea sin qui seguita che, volenti o nolenti, ha sempre e solo mantenuto il pericoloso status quo, si potranno ottenere dei risultati duraturi bloccando l’azione scriteriata della Turchia.
Del resto, se il Comitato della Croce Rossa Internazionale, impegnato da più di centocinquanta nella codifica del diritto di guerra, si è esposto nella denuncia della direzione che questo conflitto sta prendendo, sicuramente non lo si può leggere come un buon presagio. Presagio, tra l’altro, rinsaldato dall’allarme dell’ONU che tramite la voce di Michelle Bachelet, Alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, si è detto molto preoccupato per la ripresa delle ostilità, chiedendo a gran voce la fine dei combattimenti e intimando «“tutte le parti” a rispettare il diritto umanitario internazionale, “in particolare garantendo protezione alle popolazioni civili” ed evitando danni alle infrastrutture civili»[3].
Staremo a vedere se le prossime settimane vedranno un allentamento o un inasprimento della situazione, ma come spesso accade, quel che è necessario, non mi stancherò mai di ripeterlo, è un cambio di passo a livello intergovernativo e internazionale, perché ancora una volta la Turchia sta occupando quegli spazi negli scenari geopolitici in crisi che colpevolmente vengono lasciati per decenni senza risoluzioni. È più comodo, certo, procrastinare uno status quo che non si sa come dirimere, ma prima o poi le questioni vanno affrontate, altrimenti lo farà qualcun altro. E se quel qualcun altro è un presidente che ha come sogno il neottomanesimo, presto questo sogno può diventare un incubo.
Ammiraglio (a) Giuseppe De Giorgi